Storia di un impostore

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Questo che segue è un riassunto il più possibile privo di menzogne e altri giochetti retorici da fannulloni di quella che è stata la mia vita dalla nascita fino ad oggi. Si tratta di circa 1400 parole. Non ne scrivevo così tante tutte insieme per me stessa da marzo 2012 e infatti se non voleste leggerle ne sarei comunque molto contenta.


È la sera del 19 ottobre 1990 quando mia madre si ritrova a rischiare di partorirmi in una macchina lanciata come un bolide in direzione dell’ospedale di Lamezia Terme. Sua sorella minore, inginocchiata sul sedile di fianco a lei, le tiene serrate le ginocchia dicendole: “Maria, ti prego, contieniti”. Leggenda vuole che la mia testa abbia iniziato a vedere la luce a causa di una sonora risata di mia madre, un bel caso esempio di come il riso non sia destinato solo a seppellirci.

L’epopea breve della mia nascita si conclude con un paio di schiaffi assestatemi dalla ostetrica perché non ne voglio sapere di piangere – ragazzi, facciamo pace con il fatto che non tutti i bambini siano dispiaciuti di uscire fuori dalle loro madri – e con lo stupore della mia genitrice per il fatto che, a quanto pare, non so chiudere gli occhi e mi guardo intorno con l’aria sconvolta di chi non ha veramente idea di dove sia finita.

La mia espressività di “livello superiore” e la mia neonatale incapacità di dormire decreteranno per sempre il mio destino: sono un bambino indaco.

Se tra l’inizio degli anni ’70 e la fine dei ’90 vi siete persi le teorie legate all’arrivo sul pianeta di una nuova razza speciale di ragazzini, siete stati molto fortunati. Moltissimo. Reperti dell’epoca come raccolte di ritagli di giornale, pubblicazioni pseudo scientifiche e libri dalla copertina flessibile tempestati di nuvole, raggi laser e spettri animici colorati sono oggetti che hanno letteralmente invaso le librerie, le bancarelle dei mercati di provincia fino a giungere anche nelle case più insospettabili, prendendo posto tra lo scaffale della letteratura russa e quello dei classici greci, esattamente come è avvenuto a casa mia.

Per i lettori più pigri fornirò una breve descrizione di ciò che si intende per “bambino indaco”, tratta da una fonte molto autorevole in temi fantastici quale Wikipedia:

Quello dei bambini indaco (in inglese indigo children o semplicemente indigos, “gli indaco”) è un concetto pseudoscientifico[1] nato nell’ambito della subcultura New Age con cui si indica una generazione di bambini che sarebbero dotati di tratti e capacità speciali o soprannaturali. Il fenomeno, descritto da alcuni autori già con riferimento agli anni sessanta, si sarebbe intensificato dagli anni novanta in poi, cosa che, secondo le credenze New Age, preluderebbe all’imminente evoluzione dell’umanità preannunciata da tutte le correnti del pensiero New Age.

Chiaro, no?

Ora.

Immaginate il 1996. Più precisamente il settembre del 1996. Stringendo ancora di più sul dettaglio strizziamo gli occhi e mettiamo a fuoco il mio primo giorno di scuola.

La mia formazione è già ampiamente avviata: so leggere, coniugo bene tutti i verbi che conosco, coloro senza difficoltà nei margini da tempo, ho appreso i primi elementi di scienze naturali e di letteratura classica, ho i miei personali gusti musicali e mi piacciono i film su robot e viaggi interstellari, il tutto grazie alla costanza e al cipiglio didattico che caratterizza la pressoché totalità della mia famiglia. Sono, oggettivamente parlando, una bambina atipica con le sue minuscole complessità e convinzioni. Il mio primo contatto con l’immacolata società infantile fuori dalle mura domestiche si rivela dunque drammatico, prima di tutto perché – realizzo con profondo panico – io non parlo la lingua del luogo. Un assoluto tradimento da parte dei miei genitori.

“Mamma, che dice quella bambina?!”
“Giuli, ti sta chiedendo come ti chiami…”
“Mamma, aiutami, non la capisco.”
“Chiede se ti vuoi sedere vicino a lei in classe…”
“Mamma, non mi lasciare qui, non voglio. Portami a casa.”
“Ma Giuli…”
“MAMMA.”
“Hai sentito la campanella? Significa che si entra! Vai, dai, divertiti!”

Forse il mio amore/odio per i linguaggi pianta il suo seme in me proprio durante quei giorni di totale incomunicabilità. Ripeto, era il 1996, in quell’anno sono stati scoperti 562 nuovi corpi celesti, in Italia il gruppo dei Cannibali cominciava a pubblicare romanzi dai titoli sottilmente terrorizzanti che mia sorella comprava e leggeva tutti, usciva L’ombra dell’Impero, Sepùlveda scriveva un romanzo per bambini stracciacuore, uscivano al cinema Dragonheart, Evita, Mission: Impossible, Il paziente inglese, c’è stato l’attentato di Manchester, Bill Clinton, la pecora Dolly, ma nonostante questo i miei maestri erano ancora costretti a fare lezione in due lingue, traducendosi dal dialetto all’italiano di continuo. Praticamente l’approccio educativo della RAI nel 1960. E durante questa trasmissione schizofrenica dovete immaginare me che non capisco il 50% di ciò che si dice, mentre di ciò che dico io i miei coetanei non capiscono il cento-per-cento.

Inizio presto a scrivere e a raccontare ai parenti cronache fantastiche di ciò che mi accade a scuola per rendermi la reclusione più sopportabile. Il precoce sviluppo che subisco durante le varie fasi di isolamento convince mia madre che io sia ancora più speciale mentre inizia ad annidarsi in me un sentimento di menzogna costante.

Mio padre, personaggio molto influente in paese e genio delle lettere mancato, un giorno mi dirà saggiamente: “All’interno di una stanza devi avere sempre la certezza di essere la migliore tra tutti, ma devi essere brava a non farlo capire. Tienitelo per te finché non è necessario esprimerlo”. Il primo comandamento del comecazzo secondo le regole di vita di un uomo che aveva fatto dell’insuccesso consapevole il suo stendardo. In sostanza mi stava dicendo di essere modesta. Modesta oltre ogni ragionevole limite.

Mia madre, invece, continuerà per sempre a ricordarmi che sono speciale. Perché? Perché ho l’anima blu, sono nata così. Non ci posso fare niente, porca puttana, niente. Lasciatemi essere un fottuto genio! Papà, lasciami dire che sono speciale a TUTTI.

Questo tipo di scissione emotiva in un esserino di meno di 10 anni provoca effetti catastrofici sulla sua vita che nel mio caso si riassumono in una ricerca metodica del fallimento.

A 8 anni ho iniziato a suonare il pianoforte, a 11 il flauto, a 12 il contralto, a 13 il flauto traverso e il clarinetto con l’intenzione di passare al sax, a 14 ho approcciato batteria, basso e tastiere. Ero a tutti gli effetti una polistrumentista di circa 35 kg. Sono entrata nella banda, in breve sono diventata flauto solista, ho vinto diversi concorsi regionali, ho aspirato all’ingresso in orchestra finché non ho iniziato a sentirmi troppo… brava.

Vedevo la bravura come un baratro oscuro senza fondo, una corruzione degli equilibri umani, altro che una vetta da scalare per vedere dal cielo la terra. Era troppo.

Ho smesso di suonare, dimettendomi da bande, gruppi, squadre, smettendo di pagare all’improvviso il noleggio di strumenti che adesso non so nemmeno più reggere in mano. Il rifiuto è stato così totale che ad oggi non so nemmeno più leggere uno spartito.

Dopo questo, tutto ha seguito la stessa dinamica.

Ho frequentato il liceo artistico, nel giro di due anni sono diventata un’ottima ritrattista, mi sono concentrata sul modellato riuscendo nel tutto tondo con tre anni di anticipo sul resto della mia classe. Dopo aver realizzato la testa di un leone senza neanche una foto di esempio da seguire sono stata trascinata per i capelli in un’altra lunga serie di concorsi prima regionali, poi nazionali. La mia reticenza a spostarmi costringe i professori che stanno investendo su di me a scortarmi personalmente a loro spese nei luoghi in cui si tengono le gare, anche durante gli orari di scuola. Perché lo fanno? mi chiedevo. Perché ci tengono così tanto?

Sono ancora minorenne quando vinco un concorso nazionale per riproduttori di Michelangelo all’Accademia di Belle Arti di Napoli posizionandomi ventinovesima su 38 vincitori totali.

Riproduttore.

In altri termini, un falsario.

L’idea di passare la vita a creare statue da giardino in gesso con le perfette sembianze del David mi demoralizza, quella di trascorrere i miei giorni in cantieri di restauro mi toglie l’aria; quell’anno ho già subito gli effetti di un leggero avvelenamento da solventi che non voglio riprovare mai più.

Soprattutto, non voglio mentire.

La facilità e i tempi con cui raggiungo determinati risultati mi sfianca, mi fa pensare che non sia la verità quello che mi dice il mondo: non sono così brava, voi non vi rendete conto, è tutto falso. Vi sto dicendo una bugia e voi me ne state raccontando un’altra pensando che questo ci renderà la vita più lieve.

Con la scrittura? Non ne parliamo. Alle prime richieste serie di collaborazione ho chiuso tutti i miei blog e non ho mai più scritto nulla per me, ho iniziato a scrivere per gli altri e solo a pagamento. Mai per hobby, mai per mia volontà o per pura ispirazione. Gli altri e la loro verità prima di tutto.

Ora faccio il copywriter, racconto bugie che sembrano molto vere per vendere prodotti di cui spesso non mi interessa nulla. Un falsario, ancora una volta, ma delle parole.

E più mi viene detto che sono brava, meno ci credo.

Non sono brava, non sono blu. Sono un impostore.

E voi siete qui solo perché vi piace ancora farvi fregare dalle bambine che sembrano blu.